Le mani del P. Rettore avevano un moto così convulso, che mi avventurai di alzare gli occhi in faccia a lui, temendo che non svenisse; e vidi una grossa lacrima scorrergli per la guancia, poi fermarsi, poi scorrer di nuovo, e finalmente cadérgli sulla veste.
Evidentemente spossato per questo sfogo che aveva fatto con grande impeto e sempre crescente calore, appoggiò il gomito sul tavolino e il capo sulla palma della mano. Dopo pochi momenti, cambiò di posizione e cominciò a borbottare con gesti concitati. Uno spettatore indifferente forse avrebbe potuto sorridere vedendo la mano destra del buon Rettore che, tenendo fra l'indice e il pollice l'eterna presa di tabacco, trinciava sbadatamente dei piccoli cerchi movendosi dall'alto in basso; ma io, come può credersi, avevo tutt'altra voglia che di sorridereQuel suo monologo, di cui a mala pena capivo qualche parola qua e là come "dovere", "debolezza", "eterna salvazione", "sua madre", finì con una violenta scampanellata. Un frate laico entrò: "Chiamate il portiere" gridò il padre "e ditegli che porti le chiavi della prigione". (Il portiere faceva anche da carceriere). Questa conclusione mi fu di gran sollievo, perché soffrivo tanto alla presenza del mio terribile giudice sdegnato contro di me, che, pur di levarmi dai suoi occhi, mi sarei gittato anche nel fuoco. Un passo pesante ed un rumore di chiavi annunziavano la venuta del portiere. Il P. Rettore gli fece un segno e mi licenziò con un secco "andate!". Io gli baciai la mano, che questa volta non ritirò, e seguii il mio taciturno carceriere.
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