Fermata ogni cosa, ci separammo. Alfredo e il principe andarono a portare queste istruzioni agli altri amici, mentre io da me solo pensavo al domani, passeggiando lentamente su e giù per il piazzale da giuoco con lo stesso umore di Cesare, quando stava per gettare a Farsaglia le sorti del mondo.
Ragioni di profonda politica mi avevano consigliato ad assegnar l'ora della colazione per fare il gran colpo. In primo luogo avevo pensato che in quel momento, nel quale la proprietà di ognuno era in pericolo, avremmo trovato un potente aiuto nell'interesse di ciascun individuo minacciato nel suo avere. Dolorosa necessità, comune a tutti i cospiratori, compresi anche quelli di collegio, di dover fare principale assegnamento più sugli interessi materiali della moltitudine, che sulla nobile coscienza del proprio diritto. In secondo luogo, poiché i prefetti erano soliti allontanarsi in quell'ora dalla propria camerata, senza però perderla affatto di vista, e passeggiarsela per l'ampio vestibolo sul quale davano le porte, io avevo deciso dentro di me di profittare della momentanea assenza del nostro prefetto per la miglior riuscita dell'impresa, e per evitare il caso possibile che egli venisse ad interromperla.
Il momento decisivo si avvicinava. Era una mattinata scura e piovosa e l'aspetto della camerata si accordava con quello del cielo. Le facce severe e pensierose dei congiurati, le quali dimostravano una notte passata senza dormire ed una profonda ansietà, avevano una espressione quasi terribile, e, o fosse per effetto dell'aria, o per il tetro bagliore delle lampade misto alla dubbia luce di quel giorno, anche il contegno dei non partecipi alla congiura era più grave e pensieroso del solito.
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Cesare Farsaglia
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