Non mai ero stato così felice. Chi avrebbe mai potuto sospettare che, in mezzo a così ingannevole calma, io fossi prossimo ad una delle più dolorose vicende della mia vita?
Il piazzale da giuoco della prima camerata, vòlto a mezzogiorno, dava sopra un cortile tutto ingombro di fasciumi e di calcinacci, tra cui scorrazzavano innumerevoli topi, ai quali gettavamo gli avanzi del pane e delle frutta. La vista di quegli animali si direbbe che avesse sviluppato in un mio compagno, certo Vadoni, l'organo della caccia ai topi. Dapprima faceva loro la guerra scagliando pietre: poi si provò a pescarli con un amo attaccato ad un pezzo di spago, finalmente inventò una trappola che tutti i giorni calava nel cortile per mezzo di una corda. Avreste potuto vedere questo Vadoni stare per ore ed ore nello stesso luogo, osservando ogni minimo movimento degli agili abitatori del cortile con una pazienza, o meglio con un vivo interesse degno di miglior causa, e assai raramente coronato da buon successo. Doveva avere di gran peccati addosso, o una gran fame in corpo, quel topo che si lasciava cogliere in una trappola così balorda. Per uno strano accidente, ma che non era il primo, quindici giorni dopo la mia entrata in quella camerata, accadde, fosse il caso o la mia sventura, che un disgraziato topo rimanesse preso. Queste catture erano un avvenimento per tutta la camerata, perché davano materia ad un barbaro sollazzo. I poveri prigionieri (sia detto a vergogna della civiltà del collegio) erano condannati a un auto-da-fè, vale a dire si ungevano prima di trementina, poi si dava loro fuoco e si lasciavano in libertà in mezzo alla festa dei circostanti.
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Vadoni Vadoni
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