Dal canto mio non potei stare in dubbio un momento. Corsi subito dal P. Rettore: "Padre" gli dissi "la lampada la ruppi io; Alfredo è innocente. Punite me, me solo, che me lo merito; sarebbe ingiusto che l'innocente soffrisse per il reo".
Il P. Rettore non si aspettava questa complicazione, ma era così irritato, che non seppe frenare un impeto di collera: "E che significa ciò?" gridò alzandosi e battendo fortemente il pugno sul tavolino: "Come? L'autorità è forse divenuta uno zimbello, che debba essere conteso l'onore di una cattiva azione? Il vostro desiderio sarà soddisfatto, o signore"; stese la mano alla corda del campanello: ma la tirò a mezza via, si ricompose come era prima, e continuò in queste parole:
Ringraziate la mia pazienza, se una cosa tanto grave la lascio passare senza fare altre ricerche. Tornate allo studio: invano tentate accalappiarmi con questa mostra di sacrifizio a uso Pizia. Alfredo ha confessato e per conseguenza è stato punito: la giustizia è soddisfatta. Voi potete andare a perdervi con lui, ma non potete salvarlo. La sua espulsione è irrevocabile
. E provandomi io a fare qualche osservazione: "Silenzio!" tonò il P. Rettore: non voglio più sentire, non voglio saperne di più. Non mi obbligate a dare un dolore a vostra madre. Andate, vi dico, andate!". Che cosa potevo io fare se non ubbidire? Ed ubbidii.
L'incredulità del P. Rettore sulla mia reità era vera, o simulata? Il tempo degli esami e della distribuzione dei premi era, come ho già detto, molto vicino.
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