Io e lo zio Giovanni eravamo in quei giorni amici molto stretti. Sia detto a mio onore, l'accoglienza poco cerimoniosa della prima visita non m'aveva per nulla disgustato da lui. Passata la prima stizza, avevo subito capito che lo zio aveva ragione, che quella mia aria affettata mi rendeva veramente ridicolo, e che i miei versi non erano altro che sonore vacuità. Perciò, invece di avere rancore con lui, apprezzai la sua franchezza e glielo dissi chiaramente. Ed egli colpito dalla mia ingenuità, salutava con gran gioia il mio ritorno (così lo chiamava) al buon senso. Fin da quel tempo eravamo legati da una specie d'intrinsechezza, quanto lo permetteva la gran differenza d'età. Io solevo tutte le settimane fargli due visite, ed egli metteva da parte ogni faccenda, anche di premura, per far quattro chiacchiere con me. Essendo il socio principale di una gran ditta bancaria, era occupatissimo fino alle due pomeridiane, l'ora del suo desinare.
Nonostante la nostra gran famigliarità di oltre sei mesi, tutto quello che sapevo di lui era questo: che da giovinetto aveva lasciata la patria viaggiando mezzo mondo e messo assieme col commercio una considerevole fortuna; che a quarant'anni era tornato per sempre; che la sua testa era originale, e il tono frequentemente caustico; che, gentile con l'uomo, era duro col genere umano, che guardava con un sentimento tra la compassione e la diffidenza. La sua vita, per quanto potevo congetturare (poiché su ciò così egli come mia madre, che la conosceva tutta, serbavano il più gran segreto), doveva essere stata una vita di prove e di contrarietà.
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Giovanni
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