Per solito parlava poco e come a ondate. Qualche volta non l'avrebbe finita più. Quando era in collera, si rodeva le unghie. La persona da lui più amata e riverita era mia madre, che spesso andava a visitare, ma quando mio padre non fosse in casa. Sicché i due cognati non s'incontravano mai, o molto di rado, eccetto che in qualche solenne occasione, come nel giorno natalizio di mia madre, nel quale lo zio era a pranzo da noi, o nel suo natalizio, nel quale noi tutti eravamo a pranzo da lui.
Adunque il giorno dopo, vestitomi modestamente (la pomata, la mazzetta d'osso di balena e l'aria baldanzosa erano state messe da parte, il bavero dell'abito diminuito e gli ampi calzoni ristretti), un quarto avanti le due, uscii di casa per andare dallo zio.
Il modo di vivere dello zio Giovanni non era diverso da quello della maggior parte della borghesia genovese di allora, semplice ed economico. Abitava in una casa situata in una strada sudicia e angusta, come sono quasi tutte le strade di Genova. Quella casa rimaneva soffocata da un palazzone che le stava proprio dirimpetto, alla distanza di pochi passi, e a tergo dava sopra un lurido cortile. A comprare questa casa fu condotto vent'anni prima dall'unica considerazione che era distante cinque minuti appena da Banchi, e che, bisognando, era sicuro d'appigionarla. Che fosse ventilata, bene esposta e con molta luce, non se ne era dato il minimo pensiero, come se queste cose non fossero mai esistite. L'aria, la luce e la buona esposizione per lui erano superfluità: se si potevano avere per soprappiù, bene; altrimenti se ne faceva senza.
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Giovanni Genova Banchi
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