Il quartiere abitato da mio zio al secondo piano (gli altri li aveva appigionati) era sfogato ed ampio, ma tetro, freddo, e pareva quasi vuoto. Bisognava però dire a sua lode che nell'estate era molto fresco. I muri erano imbiancati, e la loro nudità, piuttosto che coperta, era messa in mostra da una dozzina di vecchi ritratti di famiglia che qua e là pendevano dalle pareti. Come dispersi e molto distanti l'uno dall'altro, vedevansi pochi mobili antiquati, pesanti e scuri, i quali, sembrando quasi abbandonati nei loro cantucci, ti facevano anche essi tristezza. Un antico specchio di Venezia, alto sei piedi, una dozzina di sedie coperte di velluto giallo sbiadito, ed un enorme orologio di tartaruga, squisitamente lavorato, erano tutto l'addobbo del salotto. Ma le pareti del salotto, molto alto e spazioso, erano, per una felice eccezione, gremite di quadri dei migliori maestri italiani. Non sedie a braccioli, non sofà, non tappeti, non lampadari; nulla insomma di tutto ciò che conferisce alle comodità della vita. Lo zio Giovanni non ne aveva mai sentito il bisogno, o meglio non si era mai accorto che nel mondo vi fossero simili oggetti. Aveva poi con la maggior parte dei suoi Genovesi il gran pregiudizio che il fuoco non faccia bene alla salute; per conseguenza aveva fatto murare l'unico caminetto del suo quartiere. La sola precauzione contro il freddo, qualche volta intenso, era di stropicciarsi le mani o di uscir fuori a far due passi.
I pasti erano di una semplicità patriarcale.
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Venezia Giovanni Genovesi
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