Mentre stavamo cianciando allegramente, il sergente del corpo di guardia dell'Acquasola, venuto casualmente colà, ci comandò in modo più che brutale di levar via quell'abito. Se con quel fatto si fossero violati i regolamenti, rimase sempre un dubbio; ma non era punto un dubbio, che il tono con cui ci fu fatta l'intimazione non fosse, a dire il meno, molto sconveniente. Pure il proprietario dell'abito obbedì facendo però osservare al sergente che avrebbe potuto essere più civile. Il soldato rispose con parole provocanti, e ne nacque un alterco; ma poco dopo se ne andò, e la cosa rimase lì: così credevamo, ma, c'ingannammo, perché un quarto d'ora dopo si vide nuovamente comparire gridando a tutta gola e facendo degli atti furiosi: "Credete forse di farmi paura perché siete studenti?". Si vedeva bene che quell'uomo era avvinazzato. "Lasciateci in pace!" disse quello dell'abito al sergente, che gli si era piantato dinanzi. Ma non l'aveva ancor detto, che il soldato cavò fuori senz'altro la daga puntandola al petto del giovane. A questa vista tutti ci lanciammo, come un fulmine, addosso a quel frenetico, non per fargli alcun male, ma soltanto per impedire che ne facesse lui. La daga, evitata a tempo dal giovine, non gli aveva che graffiata la pelle. Tutto ciò, si intende, non era avvenuto senza chiasso, e i passeggianti, attirati dalle grida, accorsero numerosi, e presto formarono un cerchio assai folto attorno a noi. Il soldato rimise la daga nel fodero e si avviò al corpo di guardia, gridando a squarciagola che noi volevamo fare una rivoluzione, e che la cosa era proprio così. Capiva bene, il sergente, che far passare un atto di legittima difesa personale per un attentato politico era lo stesso che riversare su noi l'odiosità dell'accaduto e assicurare a sé medesimo l'impunità. Noi lo seguimmo pieni di irritazione sino al corpo di guardia, con l'intenzione di lagnarcene con l'ufficiale di servizio, ma non v'era alcun ufficiale, essendo capo del posto lo stesso sergente.
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Acquasola
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