Alla fine del primo anno di legge, le cose di mio fratello Cesare vennero impensatamente a una risoluzione. Una sera, dopo essere stato tutto il giorno sopraccaricato di lavoro, era sul punto di tornarsene a casa, quando il suo principale gli dette alcune carte, che urgeva copiare, come egli disse, e che perciò la copia doveva essere fatta quella notte stessa. Cesare non si sentiva bene, e si rifiutò a tale aggiunta di lavoro per ragione di salute. Ma il principale insisteva, imputando il rifiuto a pigrizia. Cesare, facendo forza a sé stesso, rispose che credeva d'aver compiuto il suo dovere lavorando tutto il giorno, e che la notte era fatta per il riposo. A queste parole il notaro montò sulle furie e chiamò mio fratello un poltrone affamato. Cesare, irritato, soggiunse: "Se io metto un'altra volta il piede nel vostro studio, chiamatemi pure un poltrone affamato, e per di più prendetemi a calci". E così dicendo si cacciò in testa il cappello e se ne andò.
Il giorno dopo, durante il desinare, mio padre, con l'aspetto più del solito accigliato, ci fece capire che sapeva già tutto. Poco dopo entrò in discorso, e dichiarò a Cesare, come ultimatum, che il giorno seguente chiedesse scusa al notaro. Mio fratello respinse la proposta con la più grande indignazione. "Far le mie scuse a quella bestia? E perché? Per avermi insultato! Mai! mai! Preferirei piuttosto d'essere fatto a pezzi".
Voi ubbidirete; altrimenti, via di casa dentro ventiquattr'oretonò mio padre.
Fin d'ora, se vi piace; ma io non farò mai un atto vile ed ignobile
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Cesare Cesare
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