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      Il suo quartierino si componeva d'una stanza con alcova e d'un salotto con terrazza, su cui solevamo star seduti, quando il sole non vi batteva più, a goder il fresco e a fumare il sigaro.
      Due buoni terzi del mio secondo anno universitario passarono moto felicemente. La sola piccola difficoltà che incontrassi fu col Prefetto della Congregazione. È una tale inezia, che sono stato in forse se la dovevo raccontare: ma siccome fa parte d'un sistema e dichiara a meraviglia il modo col quale ci trattavano i nostri superiori, così mi induco a riferirla. Un giorno andai dal Prefetto per farmi firmare la carta d'ammissione. Costui abitava nel palazzo dell'Università, proprio su in cima, e per arrivarci bisognava salire almeno cento scalini. Venne in persona ad aprirmi col breviario in mano: "Che cosa desidera?" - Scusi, potrebbe firmarmi la carta? - "Ora non posso, perché sto dicendo l'uffizio." L'uffizio, come tutti sanno, è un'occupazione che un prete può interrompere senza scrupolo cinquanta volte di seguito: ed io lo sapevo bene per pratica, essendo stati molti i rimproveri e i ceffoni che avevo ricevuti dallo zio canonico fra un versetto e l'altro del suo uffizio: "È cosa di pochi momenti" ripresi io. "V'ho detto che non posso". Ma io insistetti. Il Prefetto, che era un uomo atrabiliare, montò sulle furie e mi disse: "Voi non avrete la mia firma né ora né poi". E mantenne la parola. Le rimostranze e le preghiere a nulla giovarono. Se non fosse stato il mio confessore, che interponendosi per me mi fece avere la necessaria firma, ne sarei privo anche ora


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Lorenzo Benoni ovvero scene della vita di un italiano
di Giovanni Ruffini
pagine 471

   





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