Non si può credere la mia confusione, ma non dicevo niente. Un altro giorno li sorpresi in un colloquio molto animato. Appena mi videro si chetarono, ma mi parvero molto impacciati. Nei soliti discorsi di politica, che si facevano come per innanzi, notai che non parlavano più di Carbonari, come se questi non fossero mai esistiti. Ecco, senza dubbio, trovato il bandolo. Il tremendo enimma, intorno a cui ci affaticammo mesi e mesi, è stato finalmente risolto. Ma perché non darmene buona notizia? Forse non si fidano di me? Impossibile! D'altra parte, perché tormentarmi il cervello intorno a questo soggetto? Se non parlano, vuol dire che non ardiscono. Io non arrischiai la minima parola che potesse prendersi per una sollecitazione a manifestarsi il loro segreto. Il mistero, tenuto occulto dai miei compagni di giovinezza, era così sacro per me, che escludeva perfino la curiosità. Nonostante v'era fra noi come una specie di nube. Alla loro presenza mi sentivo interdetto, come temessi di essere per loro un impaccio: ed anche loro, specialmente Cesare, erano impacciati al pari di me.
Una mattina di buonissima ora il mio fratello entrò in camera mia: "Ieri sera non ho lasciato qui lo schioppo?". Capii subito che era un pretesto. Cesare guardò in ogni angolo della stanza; si pose a sedere e si lamentò del caldo che per verità non era eccessivo; poi, si mise a passeggiare ed a discorrere del più e del meno; ma era facile accorgersi che qualche cosa gli passava sul cuore. Mentre appunto stava per uscire, fece una giravolta, mi accostò, mi prese la mano e lasciò cadere in gran fretta queste parole: "Mi fa pena d'avere un segreto per te; ma questo segreto non è mio, e non te la devi prendere con me.
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Carbonari Cesare
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