Eravamo in mezzo al carnevale, e la follia agitava molto allegramente i suoi campanelli; dappertutto danze e banchetti.
Si va stanotte al veglione?
mi disse Cesare la mattina del martedì innanzi il giovedì grasso: "Io ho un appuntamento per questa sera ma circa la mezzanotte; possiamo vederci là, se ti piace". Fissammo la sala, ove ci saremmo trovati. Veglione è il nome di un pubblico ballo nel mondo elegante, che si fa nel saloncino del teatro Carlo Felice.
La folla era molta, e il trattenimento animatissimo. Fuori pioveva e faceva un gran freddo: ragion di più perché la folla crescesse a godervi un caldo dilettevole. Tutto mi pareva bello, e ogni volto allegro e contento; numerose erano le maschere, i travestimenti generalmente di buon gusto, ed alcuni anche magnifici. Erano le undici e mezzo passate: mi rimaneva ancora un'altra mezz'ora per fare un giro nella sala da ballo. Così mi confusi nell'onda gaia della folla, che andava e veniva, e si pigiava per la lunga fuga delle stanze. Si ballava in più sale, ed io passando non seppi trattenere le risa ricordandomi della mia sfortunata introduzione nell'allegra arte di Tersicore, sebbene la disgrazia rimontasse a molto tempo indietro. Il fuoco incrociato di saluti, di motti e di scherzi permessi dalla circostanza mi scoppiettavano intorno da ogni parte come tanti salterelli.
Un gruppo compatto di gente c'impedisce il passo. Che cosa è? È una servetta, vero tipo di Genovese, col suo giubbetto di velluto, il mezzàro nazionale e in sottanino, che dialogizza con Gianduia, tipo piemontese.
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