Mi ricordai della promessa del giorno innanzi; ora che tutto era finito, potevo raccontargli la cosa. Chiamai Cesare e narrai loro per filo e per segno tutto quello che era stato di Lilla e me, dalla sua prima lettera misteriosa fino alla scoperta da me fatta il giorno precedente. Dissi che ero risoluto a romperla con lei, e lessi la brutta copia dell'ultima mia lettera. Così a Fantasio come a Cesare parve che io la prendessi troppo calda. A quello che loro avevo detto, Lilla doveva essere una specie di bambina, e, come tale, bisognava essere indulgenti. Poteva benissimo essersi lasciata andare a qualche atto di leggerezza: ma questo non provava che ella sentisse veramente qualche inclinazione per Beltoni. Se una innocente relazione scusabile nella libertà della campagna aveva cambiato natura, passando per le impure labbra di quel vantatore, ciò non era colpa di Lilla. Il Beltoni era uno sciocco e uno spaccone, e non bisognava prendere sul serio le sue parole: "Chi ti dice che lei non abbia voluto prendersi giuoco della sua vanità?". In qualunque modo la lettera, che avevo scritta, era troppo brusca, perentoria e dura: non poteva stare.
Faccende di questo genere non si potevano trattare per lettera: io dovevo esigere da Lilla una spiegazione franca ed a voce, e risolvermi poi secondo i risultati di essa. Se queste ragioni non mi convinsero né mi smossero dalla mia determinazione di romperla con lei, mi addolcirono però di molto. Era per me un conforto sentire che i miei amici ne pigliavano le difese: "Ebbene, sia dunque così: non le scriverò: le parlerò e le dirò tutto il mio sentimento: questa è la meglio.
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