Qual colpo! Cesare ed io ci guardammo in faccia con una muta disperazione. Che fare? Trovarci subito col dottor Pedretti. Siccome lo conoscevo di vista, fu stabilito che andrei io. Mi fu agevole sapere il suo domicilio, e subito corsi a trovarlo.
Il dottor Pedretti era uno di quegli uomini che non furono mai giovani: gli si potevano dare così venticinque come cinquant'anni. La sua cravatta e i merletti dello sparato della camicia erano tutt'altro che bianchi; il naso sempre tabaccoso; la pancia abbastanza sporgente; e si dava molt'aria. Mi domandò che cosa gli procurava l'onore della mia visita. Glielo dissi subito. Spiritò di paura, e mi rispose balbettando che certamente avevo preso un equivoco sul conto suo. Replicai che ero ben sicuro del fatto mio, e che non giovava d'infingersi; che non ero una spia, ma un fratello: e in così dire gli feci i segni di riconoscimento. Preso alla sprovvista, non si provò a negare più oltre, ma diventò pallido come un morto: corse alla porta e, assicuratosi che non c'era nessuno, tornò indietro e mi disse piano all'orecchio che la parola d'ordine del partito era per il momento segregazione che significava immediata e assoluta interruzione di ogni comunicazione fra i buoni cugini e che egli non poteva pigliarsi l'arbitrio di contravvenire al comando col dare le informazioni richieste. A nulla valsero le preghiere e le istanze contro quella sua ritenutezza adamantina, la quale probabilmente non era altro che un velo per coprire l'isolamento in cui era tenuto e salvare la sua vanità. Il dottor Pedretti non mi perdonò mai lo spavento che gli cagionai in quel giorno.
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