Fin da quel tempo Cesare ed io eravamo stati in relazione col nostro nuovo amico, e avevamo ricevuto da lui molte utili notizie ed avvisi.
A lui dunque ricorremmo senza indugio, e gli raccontammo la cosa per filo e per segno, esponendogli il timore che ci dava. Familiare, com'era con tutti gli impiegati di polizia alti e bassi, intimo con lo stesso Direttore, non vi poteva esser nessuno, dicevamo, che meglio di lui potesse cavarci dalla presente perplessità; nessuno che potesse meglio verificare lo stato effettivo delle cose. A lui costava poco il vedere se vi fosse qualche insolito movimento nel dicastero della Polizia, o se gli impiegati lasciassero intravvedere qualche segno d'apprensione, inquietudine o preoccupazione, ovvero facessero mostra di una sicurezza affettata. Lo incaricammo di notare ogni più leggera circostanza, di studiare le fisionomie, d'interpretare lo stesso silenzio; e di far anche la parte di uno di cui si diffida, e che gli altri impiegati della Polizia avessero interesse ad addormentare con una falsa sicurezza e a tenere a bada. Insomma gli raccomandammo la cosa con tutto il calore e l'ardore che ci veniva dalla gravità della nostra condizione. Il buon vecchio con egual calore ed ardore ci rassicurò di esser pronto a fare una rigorosa e strettissima ricerca, e di farci sapere più presto che fosse possibile il risultato.
Né fece soltanto questo per noi. Il dopo pranzo di quello stesso giorno, poche ore dopo aver ricevuta la grave notizia di Vittorio ed anche prima del nostro abboccamento coll'amico Nasi, avvenuto la sera, il Principe era stato spedito a Torino con la posta per far sapere ai nostri amici di là il nuovo aspetto che avevano preso le cose, e per assicurare, in caso di bisogno, la pronta cooperazione della capitale.
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