Non era alzato alcuno della famiglia eccetto Cesare ed io, e andammo ad aprire. Entrò un picchetto di carabinieri, comandato da un commissario di Polizia che ci presentò il mandato d'arrestare Cesare Benoni e di perquisire le sue carte. Fu un colpo di fulmine.
La famiglia non tardò a raccogliersi; incominciò l'esame delle carte, lungo, minuzioso e fatto con un grande spirito di molestia e di ostilità, ma forse non molto maggiore di quel che si poteva sospettare, considerando che colui il quale dirigeva questa faccenda, aveva un debito di gratitudine con la famiglia Benoni, dalla quale aveva nel passato ricevuto molti benefizii, anzi era stato, a rigor di termine, salvato dalla fame. Vennero sequestrate alcune carte: un ultimo addio, una stretta di mano, e Cesare fu condotto via.
L'animo mi diceva pur troppo che l'arresto di mio fratello non era un fatto spicciolo, ma parte d'una serie di provvedimenti dello stesso genere: "Sol che Vittorio sia salvo, tutto può ancora salvarsi!". Questo pensiero non mi dava pace, ed io andavo ripetendo a me stesso: "Sol che Vittorio sia salvo!". M'ingegnai di confortar mia madre come meglio potei, e allo spuntar del giorno andai a trovare Alfredo, il quale, grazie a Dio, era salvo nel suo letto. Dopo poche parole di schiarimento, corremmo dallo Sforza. Povero Sforza! Era già stato arrestato. Il principe era salvo; sapevamo che Adriano Stella era a Livorno.
Allora ci avviammo all'arsenale, dove stavano di quartiere Vittorio e i suoi amici. Alcuni artiglieri comandati da un sergente stavano piantando un cannone all'entrata dell'arsenale.
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