Questa considerazione e l'eloquente, sebben muta, preghiera di mia madre mi chiusero la bocca e m'indussero a lasciar correre. Essendo la camera di mio fratello all'estremità d'uno dei piani superiori, egli non aveva udito alcun rumore; e se la dormiva placidamente quando mio padre, seguito da due carabinieri e dal più giovane ufficiale di polizia, entrò da lui e lo invitò ad alzarsi. Nonostante la severa vigilanza con che era guardato, ebbe modo di fargli capire in poche parole l'equivoco che a lui sarebbe costato momentaneamente la libertà.
Camillo obbedì volentieri alla intimazione; cavò fuori tutte le carte, nelle quali sapeva bene che non c'era nulla di compromettente; e con un cuore più sincero di quello che soglia avere un arrestato, se ne andò in prigione in vece mia.
Debbo però ricordare ancora che rimase in carcere molto più di quello che avevamo preveduto. Passarono parecchi mesi prima che riavesse la libertà.
Questo fatto aveva destato in mia madre tutto il sentimento del pericolo che mi sovrastava; e la mattina seguente me ne parlò con gran calore. Mi fece conoscere che il persistere a voler rimanere in Genova, dopo quello che era successo, poteva chiamarsi pazzia; era un opporsi alla volontà di Dio che per salvarmi aveva bendati gli occhi ai miei nemici; che ciò che io tenevo come mio dovere verso i miei compagni non doveva farmi interamente dimenticare ciò che io dovevo a una madre già più che abbastanza provata, e al resto della famiglia.
Queste ragioni, ma ancor più le lacrime e le suppliche con cui erano accompagnate, avevano smosso fino a un certo punto la mia volontà; quando arrivò lo zio Giovanni che alle preghiere e alle rimostranze della madre aggiunse le sue proprie.
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Genova Dio Giovanni
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