Egli obbedì con l'aria stizzosa d'un can mastino che sia stato battuto dal padrone.
Questo fatto fu cagione d'un penoso sentimento di diffidenza tra noi due, e dette corpo ai vaghi sospetti che mi avevano assalito al primo entrar nella barca.
CAPITOLO XXXV
Il fuggitivo
Il giorno scorreva tedioso e con una monotonia spiacente all'animo, anche se il corpo e la mente si fossero trovati nella migliore disposizione. Nel mio stato poi mi dava tutto il modo di riflettere sulle molte ragioni di ansia e d'affanno che mi assediavano.
A mano a mano che le tenebre della sera si facevano più fitte, più e più addiveniva intenso ed acerbo quel senso di doloroso sconforto che mi aveva tormentato durante il giorno. Mi bruciava la fronte, le tempie mi battevano come se volessero scoppiare; tremiti convulsi mi guizzavano per tutta la persona; la mia inferma immaginazione evocava ogni sorta di scene fantastiche e spaventose, sulle quali la mente si fissava con una cupa tenacia. Invano mi provavo a ragionar con me stesso, invano mi sforzavo di scacciare quei demoni odiosi, creazioni mostruose di un cervello delirante; io non ero più padrone di me stesso. Ma perché s'intenda come fossi ridotto in quello stato senza una sufficiente cagione, dacché avevo lasciata Genova, debbo tornare un passo indietro.
La mia condotta in tutto passiva, a cominciare dalla notte che tentarono d'arrestarmi fino al presente momento, non deve essere sfuggita al lettore. L'affanno dell'animo s'era, a dir vero, mostrato con pochi segni esteriori; ma le mie commozioni erano state soltanto compresse e non avevano però meno dolorosamente lavorato sotto quella crosta di ghiaccio.
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Genova
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