CAPITOLO XXXIX
Conclusione del viaggio e del racconto
Appena ripreso fiato, la prima cosa che feci fu di accertarmi se il cappello mi rimaneva sempre in testa. Per buona sorte la cravatta con cui l'ebbi legato non l'aveva lasciato andar via come erano andati via i fazzoletti attorno i ginocchi; e perciò mi trovavo, cosa per me di capitale importanza, con la borsa e col passaporto. Avevo perduto le scarpe e buona parte anche delle calze; avevo i piedi e le mani molto laceri e tutti insanguinati. Fui curioso di conoscere come l'avevo potuta scampare nel momento appunto che la mia salvezza era più disperata. Pensandoci un poco potei spiegarmi quello che sulle prime mi pareva poco men che un prodigio. Vidi che il fiume faceva un gomito acuto precisamente nel punto dove avevo sentito il fondo, e conobbi che dovevo la vita alla furia e all'impeto della corrente, che formava ivi un vortice. Difatti, ero stato balzato fuori del corso del fiume, come un sasso di sotto alla zampa di un cavallo che corra a galoppo serrato. M'avvidi pure che cinque minuti più tardi sarei stato trascinato in mare.
Ben presto la vista e il rumore dell'acqua corrente mi divennero insopportabili (la quale impressione mi durò parecchi anni), e mi allontanai in tutta fretta da quel luogo, come da un nemico, da cui temevo sempre di esser ghermito.
Le mie vesti, come può bene immaginarsi, erano in uno stato da far pietà; inzuppate, stracciate e piene di fango. C'erano lì presso alcuni cespugli e arbusti, e ad essi ne misi una parte ad asciugare.
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