Scipione, che s'era trovato a veder le calamità della Repubblica sotto quei primi Capi sfortunati, ne comandava allora le armi in quel nuovo stato di prosperità al quale egli avea tanto contribuito. In quanto a Annibale, non si può negare ch'ei non si fosse abusato della buona fortuna, ma bisogna anche fargli la giustizia di dire ch'ei fece tutto il fattibile per sostener la cattiva. Il primo, per natura confidente di se stesso, e per la felicità delle cose presenti, aveva di più il vantaggio di trovarsi alla testa d'un'armata che non sapeva più dubitar della vittoria. Il secondo, si ricresceva una certa sconfidanza naturale con la considerazione del cattivo stato della patria, e col poco concetto ch'egli aveva de' suoi soldati.
Questa differente disposizione d'animi fece offerire e rigettar la pace, con che bisognò venire a una battaglia.
In quella giornata, si può dir che Annibale superasse se stesso, o sia nell'avvantaggiarsi nei posti, o nel dispor l'armata, o nel dare gli ordini nell'azione. Ma finalmente il destino di Roma la fece vedere a quel di Cartagine, e la disfatta de' Cartaginesi lasciò per sempre l'imperio ai Romani. Per quel che tocca il Generale, Scipione l'ammirò tanto che nel sommo della sua gloria pareva ch'egli invidiasse la capacità del vinto: e il vinto, stato sempre da vincitore lontanissimo dalla iattanza, crede' di restar tuttavia con qualche vantaggio nella scienza della guerra.
Poichè discorrendo egli un giorno con Scipione dei gran capitani, messe Alessandro il primo, Pirro il secondo, e sè per il terzo.
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Opere slegate
di Charles de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond
pagine 263 |
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