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      Dico che, a meno di non aver nel cervello un innesto ben rigoglioso e vegnente di malinconia, il vivere una vita selvatica, e lo starsene sempre fuggiasco dalle persone non è possibile.
      Io non parlo di quei ritiri e di quei silenzj che vengono consacrati dalla religione. Questi io gli ammiro altrettanto quanto, in ossequio di quel motivo che può far volere alla volontà elezioni così disvolute dalla natura, ne venero gli abitatori e i professi. Sì come non c'è virtù più difficile e più rara di quella d'un uomo solitario, così non ce n'è alcuna più degna delle nostre lodi, e con le sole forze della natura, meno capace della nostra imitazione.
      E in fatti noi vediamo che per l'ordinario tutti quelli che non essendo chiamati di sopra, fattasi una illegittima vocazione del loro capriccio, si gettano in campagna per malcontenti del mondo, la durano poco. La ragione non è altra se non che lo stato di solitario (intendo sempre dal tetto in giù) è uno stato violento per l'uomo. Quell'istinto naturale che gli fa apparire [amabile] la società, presto o tardi prevale, e di tempo in tempo lo fa pentire d'averla abbandonata. E vaglia a dire il vero, è egli vivere lo star rimpiattato tutto il tempo che si vive? Io per me fo pochissima differenza dalla morte al ritiro, dalla solitudine alla sepoltura.
      E però a voler viver da uomo bisogna trattar con gli uomini, e farsi della conversazione il maggior capitale della nostra tranquillità in questa vita, ma ci vuole scelta e misura, niente essendoci nè di più utile, nè di più azzardoso: perchè come il troppo lungo ritiro svanisce lo spirito, così la compagnia troppo frequente lo svaga.


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Opere slegate
di Charles de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond
pagine 263