Patan, fedele alla parola data, si era fatto uccidere dietro al suo cannone, ma un altro abile artigliere aveva preso il suo posto; altri uomini erano caduti e altri ancora, orrendamente feriti, colle braccia o colle gambe mozzate, si dibattevano disperatamente fra torrenti di sangue.
Un cannone era stato smontato sul praho di Giro-Batol e una spingarda non tirava quasi più, ma che importava?
Sul ponte dei due legni restavano altre tigri assetate di sangue, che facevano valorosamente il loro dovere.
Il ferro fischiava sopra quei prodi, staccava braccia e sfondava petti, rigava i ponti, schiantava le murate, frantumava ogni cosa, ma nessuno parlava di retrocedere, anzi insultavano il nemico e lo sfidavano ancora e, quando un colpo di vento sbarazzava quei poveri legni dai nuvoloni che li coprivano, si vedevano, dietro le semi-infrante barricate, volti foschi e raggrinzati dal furore, occhi iniettati di sangue che schizzavano fuoco ad ogni lampeggiar delle artiglierie, denti che scricchiolavano sulle lame dei pugnali e in mezzo a quell'orda di vere tigri, il loro capo, l'invincibile Sandokan, il quale, colla scimitarra in pugno, lo sguardo ardente, i lunghi capelli sciolti sugli omeri, incoraggiava i combattenti con una voce che risuonava come una tromba fra il rimbombo dei cannoni. La terribile battaglia durò venti minuti, poi l'incrociatore si portò altri seicento passi più indietro, per non venire abbordato.
Un urlo di furore scoppiò a bordo dei due prahos, a quella nuova ritirata.
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Giro-Batol Sandokan
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