Allora non era più la Tigre della Malesia, non era più il sanguinario pirata. Muto, anelante, madido di sudore, rattenendo il respiro, per non turbare coll'alito quella voce argentina e melodiosa, ascoltava come un uomo che sogna, come se avesse voluto imprimersi nella mente quella lingua sconosciuta che lo inebriava, che gli soffocava le torture della ferita, e quando la voce, dopo aver vibrato un'ultima volta, moriva coll'ultima nota della mandola, lo si vedeva rimanere a lungo in quella posa, colle braccia tese come se volesse attirare a sé la fanciulla, collo sguardo fiammeggiante fisso in quello umido di lei, col cuore sospeso e gli orecchie tesi come se ascoltasse ancora.
In quei momenti egli non si ricordava più di essere la Tigre, dimenticava la sua Mompracem, i suoi prahos, i suoi tigrotti e il portoghese, che forse in quell'ora, credendolo per sempre spento, vendicava la sua morte chissà con quali sanguinose rappresaglie.
I giorni così volavano rapidi e la guarigione, potentemente aiutata dalla passione che gli divorava il sangue, procedeva rapida.
Nel pomeriggio del quindicesimo giorno il lord, entrato improvvisamente, trovò il pirata in piedi, pronto ad uscire.
— Oh! mio degno amico! — esclamò allegramente. — Sono ben contento di vedervi in piedi!
— Non mi era più possibile rimanere a letto, milord — rispose Sandokan. — D'altronde mi sento tanto forte da lottare con una tigre.
— Benissimo, allora vi metterò presto alla prova!
— In qual modo?
— Ho invitato alcuni buoni amici alla caccia d'una tigre che viene sovente a ronzare presso le mura del mio parco.
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