Ma Sandokan, malgrado quel furioso rimescolamento d'acqua, non cedeva e guidava il legno verso Labuan, sfidando impavido la tempesta. Era bello vedere quell'uomo, fermo alla ribolla del timone, cogli occhi in fiamma, coi lunghi capelli sciolti al vento, irremovibile fra gli scatenati elementi che ruggivano a lui d'intorno; era ancora la Tigre della Malesia che non contento di aver sfidato gli uomini sfidava ora i furori della natura.
I suoi uomini non erano da meno di lui. Aggrappati alle manovre, miravano impassibili quegli assalti del mare, pronti ad eseguire la più pericolosa manovra, dovesse costare la vita a tutti.
E intanto l'uragano cresceva sempre d'intensità, quasi volesse spiegare tutta la sua potenza per tenere testa a quell'uomo che lo sfidava. Il mare si alzava in montagne d'acqua che correvano all'assalto con mille urla, mille tremendi ruggiti, avvallandosi le une e le altre e scavando abissi profondi che parevano dovessero giungere fino alle sabbie dell'oceano; il vento urlava su tutti i toni, spingendo innanzi a sé vere colonne d'acqua e rimescolando orribilmente le nubi, entro le quali rombava incessantemente il tuono.
Il praho lottava disperatamente opponendo alle onde che volevano trascinarlo al nord, i robusti fianchi. Si sbandava sempre più spaventosamente, si raddrizzava pari a un cavallo imbizzarrito, si tuffava sferzando l'acqua colla prua, gemeva come fosse lì lì per aprirsi in due e certi momenti rollava così tanto da temere che non si sarebbe più rimesso in equilibrio.
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