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      Ed a queste aggiungendo molt'altre invettive, si levņ a romore il Senato, nemico chiamandolo e parricida. Furibondo egli allora: "Poichč da nemici attorniato, (gridņ) a manifesta rovina son tratto, non perirņ solo io."
     
     
      XXXII.
     
      Quindi fuor di Senato balzando, in casa slanciatosi, se ne va rivolgendo in se stesso, che nč le insidie da lui tese al Console riuscivano, nč l'incendio alla cittą minacciato, stante le moltiplicate guardie. Credendo perciņ doversi il suo esercito accrescere, ed antivenire le non ancora arruolate legioni, in piena notte con poco seguito egli trafugasi nel campo di Manlio: fatti perņ prima sollecitare Cetego e Lentulo e quanti altri conosceane pronti ed audaci, ad afforzare come il potrebbero meglio la parte; ad affrettare l'uccisione del Console; a preparare le stragi l'incendio ed ogni altra ostilitą: assicurandoli tutti, che egli fra breve con poderoso esercito accosterebbesi a Roma.
     
     
      XXXIII.
     
      Cajo Manlio frattanto dal suo campo spiccava ambasciatori che a Quinto Marcio Re riferivano questi suoi detti: "Attestiamo noi gli uomini e i Numi, che armati, o Imperator, non ci siamo nč contro la patria nč per offender privati, ma per porre in sicurezza da ogni offesa noi stessi. Infelici noi, indigenti, dalla violenza e crudeltą de' barattieri siam dispogliati, alcuni della patria, tutti dell'onore e ricchezze: nč ad alcuno di noi concedevasi, come gią ai nostri maggiori, il favor della legge, per cui, perdute le sostanze, ci rimanesse almen libertą; cotanta era la inumanitą dei creditori e dei giudici.


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C. Crispo Sallustio tradotto da Vittorio Alfieri
di Gaius Sallustius Crispus
1807 pagine 161

   





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