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      III.
     
      Vero è altresì, che le nobili arti non mi pajono nei presenti tempi aprir via alle magistrature, ai Consolati, nè ad alcun'altra pubblica cura: poichè nè gli onori son premio della virtù; nè chi fraudulento tutto dì li rapisce, se ne vive perciò più onorato e sicuro. Scabra e pericolosa è l'impresa di governare per forza la patria, o i sudditi; e, bench'ella ti riesca, e ti giovi pur anche, dispiacevole è tuttavia; tanto più nei gran torbidi e novità, in cui le stragi, gli esigli, e mill'altre ostilità si richiedono. Il voler poi cozzar con la sorte, e con penosa ma vana fatica null'altro acquistarsi che l'odio di tutti, ell'è somma insania; e a colui solo concessa, che da prave e disoneste voglie afferrato, la libertà sua e l'onore vilmente sagrifica alla potenza di pochi.
     
     
      IV.
     
      Ma, tra quante altre arti all'umano ingegno rimangono, nè la più nobile havvi, nè la più utile, che quella di scrivere storie. Della di lei eccellenza, poichè da tanti altri innalzata, non parlerò: perchè io stesso innalzandola troppo, di stolta vanità potrei esser tacciato. Nè mancherà chi intitoli ozio questa mia tanta e sì util fatica, per cui dai pubblici affari mi sono per sempre rimosso: taluno forse, che egregia opera reputa il corteggiare la plebe, e il procacciarsene con i conviti il favore. Ma, chi esaminerà in quai tempi a me la magistratura toccasse, a quali uomini negata venisse, di quali si accrescesse il Senato; dirà certamente che io più per virtù, che per insufficienza, cangiatomi di parere, me n'asteneva: e che maggiormente forse fruttava alla patria questo mio ozio, che non di tanti altri il lavoro.


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C. Crispo Sallustio tradotto da Vittorio Alfieri
di Gaius Sallustius Crispus
1807 pagine 161

   





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