Tutto dunque a Mario arrideva.
LXVI.
Giugurta frattanto, niun conto facendo dell'essersi arreso, riguerreggiava. Affrettavasi di porre in ordine con somma cura ogni cosa; gente arruolare; le ribellate città col terrore o colle lusinghe sedurre; munire i suoi posti; spade, dardi, e quant'altre armi trascurate avea pensando alla pace, rifabbricare o comprare; allettar gli schiavi dei Romani; i presidj stessi delle loro città tentar con danari: nulla in somma d'incorrotto, nulla lasciar di quieto, sossopra ogni cosa mandando. I Vaccesi, che da prima alle proposte di pace ricevuto aveano presidio Romano, ma inclinavano pur sempre a Giugurta, stanchi oramai di vederlo straziato, congiurano a di lui favore. Era quel popolo, quanto e più d'ogni altro, volubile, sedizioso, discorde; di novità, cupidissimo, della quiete e dell'ozio, nemico. Congiurarono i primi della città; e pel giorno terzo fissarono l'esecuzione dell'impresa. L'essere quel dì festeggiato dall'Affrica tutta, infra giuochi e piaceri più atto rendevalo ad inspirar sicurtà che terrore. Giunto dunque il dì fisso, que' magnati invitavano a cena i centurioni e tribuni nostri, ed il governatore stesso Tito Turpilio Silano, ciascuno in case diverse: a mezzo poi de' banchetti, gli uccidono tutti, eccetto Turpilio. Quindi i soldati erranti e senz'armi, e pel festivo giorno sicuri e dispersi, assaliti venivano dalla plebe; la quale, parte era dai nobili, parte dal crudele suo animo incitata alla strage: senza però saperne la cagione o l'effetto; del tumultuare godendo, e dell'eseguir nuove cose.
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