I prelati che in Trento si ritrovavano quasi con una sola bocca biasimavano il decreto, dicendo essere peggio che quello di Spira, e maravigliandosi come il pontefice, che contra quello si era mostrato cosí vivo, avesse tolerato e tolerasse questo, dopo che era inditto e già congregato il concilio. Cavavano da questo manifesto indizio che lo star loro in Trento era una cosa vana e disonorevole: s'ingegnavano i legati quanto potevano di consolargli e persuadergli che tutto era stato permesso da Sua Santità a buon fine. Ma essi replicavano che a qualonque fine sia permesso e qualonque cosa ne segua, non si torrà mai la nota fatta non solo al pontefice e Sede apostolica, ma al concilio et a tutta la Chiesa; né potevano i legati resistere alle loro querele, le quali poi terminavano tutte in domandar licenza di partire, alcuni allegando necessarii et importanti loro affari, altri per ritirarsi in alcune delle città vicine per infermità o indisposizione. E se ben i legati non concedevano licenza a nissuno, alcuni alla giornata se l'andavano prendendo, sí che inanzi il fine del mese di settembre restarono pochissimi. Ma in Roma, se ben per la negoziazione del cardinale Farnese si prevedeva che cosí dovesse essere, nondimeno, dopo succeduto, si comminciò a pensarci con maggior accuratezza: si consideravano i fini dell'imperatore molto differenti da quello che era l'intenzione del pontefice: perché Cesare, col tenere le cose cosí in sospeso, faceva molto ben il fatto suo con la Germania, dando speranza a protestanti che, se fosse compiacciuto, non averebbe lasciato aprire il concilio, e mettendogli anco in timore che, non compiacciuto l'averebbe aperto e lasciato procedere contra di loro.
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