Gli intendenti di teologia dicevano che la dottrina di poter l'uomo sempre rifiutare le divine inspirazioni era molto contraria alla publica et antica orazione della Chiesa: "Et ad te nostras etiam rebelles compelle propitius voluntates", la qual non convien dire che sia un desiderio vano e frustratorio, ma sia fatto "ex fide", come san Giacomo dice, e sia da Dio verso i suoi eletti essaudito. Aggiongevano che non si poteva piú dire con santo Paolo che non venga dall'uomo quello che separa i vasi dell'ira da quei della misericordia divina, essendo il separante quell'umano: "non nihil omnino". Molte sorti di persone considerarono quel luogo del settimo capo, dove si dice la giustizia essere donata a misura, secondo il beneplacito divino e la disposizione del recipiente, non potendo ambedue queste cose verificarsi: perché se piacesse a Dio darne piú al manco disposto, non sarebbe a misura della disposizione, e se si dà alla misura di quella, vi è sempre il motivo per quale Dio opera e non usa mai il beneplacito. Si maravigliavano come avessero dannato chi dicesse non essere possibile servare i precetti divini, poiché il medesimo concilio, nel decreto della seconda sessione, essortò i fedeli congregati in Trento che pentiti, confessati e communicati osservassero i precetti divini, "quantum quisque poterit". La qual modificazione sarebbe empia, se il giustificato potesse servargli assolutamente, e notavano esservi la medesima voce "precepta" per levare ogni forza a' cavilli.
Gli intendenti dell'ecclesiastica istoria dicevano che in tutti i concilii tenuti nella Chiesa, dal tempo degli apostoli sino a quell'ora, posti tutti insieme, mai erano stati decisi tanti articoli quanti in quella sola sessione; in che aveva una gran parte Aristotele coll'aver distinto essattamente tutti i generi de cause, a che se egli non si fosse adoperato, noi mancavamo di molti articoli di fede.
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