[Intrighi a Trento per una lettera del Soto al papa]
Ebbe anco principio un moto intrinseco nel concilio, se ben per causa leggiera, che diede assai che parlare. Fra Pietro Soto, che morí in quei giorni, tre dí inanzi la morte dettò e sottoscrisse una lettera a fine che si mandasse al pontefice, nella quale, in forma di confessione, decchiarava la mente sua sopra li capi controversi nel concilio, e particolarmente essortava il pontefice a consentire che la residenza e l'instituzione de' vescovi fossero decchiarate de iure divino. La lettera fu mandata al pontefice, ma ritenutane copia da un frate, Lodovico Loto, che stava in compagnia del Soto, il qual credendo d'onorar la memoria dell'amico, incomminciò a disseminarla; onde erano diversi li raggionamenti, movendosi alcuni per l'azzione d'un dottore d'ottima vita in tempo che era prossimo alla morte, dicevano altri che non era fatto per moto proprio del padre, ma ad instigazione dell'arcivescovo di Braganza. Fu fatta opera dal cardinale Simoneta di raccogliere le copie che andavano attorno; ma questo accrebbe la curiosità e le fece tanto piú publicare, sí che andarono per mano di tutti. Certo è che per questo successo li defensori di quelle opinioni pigliarono molto piú cuore. E li spagnuoli si riducevano spesso in casa del conte di Luna, dove Granata, informandolo delle cose occorrenti et occorse in concilio, essendo opportunamente partiti li vescovi di Leria e di Patti, disse: "Questi sono de' perduti, li quali, a guisa d'animal, si lasciano caricar la soma e guidar dall'altrui volontà e parere, non per altro buoni che per numero"; soggiongendo che, se nelle risoluzioni delle cose s'aveva d'attender il numero de' voti, come sin allora s'era fatto, si poteva sperar poco di bene; e però era di mestiero che i negozii si trattassero per via di nazioni.
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