Il cardinale rispose che, quando gionse a Trento, trovò già mosse quelle dificoltà; che fabricò quella formula essendo stato ricchiesto, con intenzione di metter pace e concordia e rimediar alle differenze; il che non essendogli successo come desiderava, si sarebbe rallegrato con l'arcivescovo, quando egli avesse ottenuto in questo l'onore che esso non aveva potuto riportare; ringraziandolo inoltre che come maestro gli raccordasse quando mancava in alcuna cosa. E quanto alla questione dalla superiorità del concilio, disse che per esser egli nato in Francia, dove era commune quell'opinione, non poteva, né esso, né gl'altri francesi, lasciarla, e che, per tenerla, non credeva dovessero esser costretti a far un'abiurazione canonica. Replicò l'arcivescovo che reprendeva la formula per esser imperfetta, dal che le difficoltà erano nate; ma del rimanente, che quello non era luogo da rispondergli e che stimava poco l'ingiurie fatte a sé; ma ben si doleva d'alcuni che professavano d'accusar le azzioni de' legati, nel che non mostravano buona mente. Tacque il cardinale senza mostrar in apparenza di restar offeso. Di questo fatto il conte di Luna, o per proprio moto o ad instanza de' francesi, riprese l'arcivescovo, dicendogli che andando alle orecchie di Sua Maestà catolica non saria se non per dispiacergli. Et un prelato francese, o per ordine datogli da Lorena o pur spontaneamente, avvertí il cardinale Morone che quell'arcivescovo passava molto li termini, che usò anco cattive maniere contra il cardinale già trattandosi della residenza; e che il cardinale era avisato come in casa di quello continuamente era lacerato et il piú onorato titolo datogli era chiamandolo uomo pieno di veneno; onde essendo anco successo quell'ultimo accidente, sarebbe stato ben non chiamargli ambidoi insieme a consulta, perché il cardinale non sarebbe restato sodisfatto.
| |
Trento Francia Luna Sua Maestà Lorena Morone
|