Gli errori che tanto frequentemente occorrono nello scritto, si accumulano nelle tavole a segno da contarsi per migliaia, cosicchè purificare queste stalle d’Augia non fu la fatica minore dell’edizione presente.
Dell’opera di Albatenio si fecero nel medioevo tre versioni. Di una compiuta in latino da Robertus Cataneus Retinensis verso la fine del XII secolo, non esiste più alcuna traccia, e non pare che essa sia stata mai molto conosciuta.
Notissima invece fu la versione latina fatta da Platone Tiburtino verso la medesima epoca, della quale non solo si hanno esemplari manoscritti in varie biblioteche d’Europa, ma anche un’edizione stampata a Norimberga nel 1537, e riprodotta a Bologna nel 1645 con qualche errore di più. Questa versione è la fonte da cui principalmente derivò la cognizione che gli astronomi d’Europa ebbero finora dell’opera di Albatenio: essa contiene soltanto la parte dottrinale; le tavole astronomiche mancano intieramente, così nei manoscritti come nelle edizioni stampate. L’esemplare di cui si valse Platone deriva dal medesimo archetipo dal quale fu tratto il codice dell’Escuriale, e contiene gli stessi errori e le stesse interpolazioni. Altri errori e difetti vanno ascritti al traduttore, il quale non era abbastanza perito della lingua arabica nè abbastanza istrutto delle cose astronomiche, sicchè in molti luoghi la versione riuscì affatto inintelligibile. A decifrarne il senso impiegarono (e non sempre felicemente) le loro fatiche tre insigni astronomi, Regiomontano, Halley e Delambre, il cui compito era reso anche più difficile dall’assenza delle tavole astronomiche.
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