I monumenti astronomici degli egiziani furono studiati da Lepsius e da Brugsch. I coctiles laterculi da tanto tempo sepolti, che a migliaia e a miriadi ritornano alla luce dalle rovine di Ninive, di Babilonia e dei vecchi templi della bassa Caldea, hanno dato sull’astronomia dei Babilonesi informazioni assai più estese e sicure di quelle che ci tramandarono i Greci. Le acute e perseveranti indagini di Sayce, Strassmayer, Epping e Kugler, sostenute da uno spirito di divinazione quasi portentoso, hanno dimostrato che il merito acquistato dai Babilonesi nel creare, e sopratutto nel diffondere le dottrine astronomiche, è stato grande ed inferiore soltanto a quello dei Greci.
Nello studio dell’astronomia indiana Bailly, portato da troppo fervida immaginazione, e Bentley, animato da uno spirito di negazione altrettanto esagerato, fecero entrambi falsa strada in direzioni opposte. La confusione che ne nacque non potè esser levata neppure dal genio prudente e dagli scritti ponderati di Colebrooke, essa si rispecchia fedelmente nella esposizione che Delambre ha fatto di questo argomento. Soltanto a partire dalla metà del secolo XIX, e primamente in conseguenza degli studi estesissimi e sistematici di Cristiano Lassen e di Alberto Weber sulle antichità e sulla letteratura degli Indiani, cominciarono ad ordinarsi alquanto le idee sulla storia della loro astronomia; al che cooperarono pure efficacemente le fatiche di Burgess e di Whitney. Intanto s’impadronirono di questa materia alcuni panditi indiani educati al metodo ed allo spirito europeo d’investigazione, e molti libri sanscriti d’astronomia, di cui appena si sapeva il nome, vennero fuori dalle loro tenebre secolari; così che Thibaut, dopo pubblicati i cinque Siddhanta (o trattati d’astronomia) più antichi, riuscì a presentare i fatti e i documenti relativi all’astronomia indiana secondo un ordine storico sicuro nelle sue linee principali, e capace di fornire una solida base alle investigazioni avvenire.
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