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      Ma se a queste osservazioni si aggiunga la numerazione dei giorni e la misura degli intervalli di tempo secondo cui ciascuno dei detti fenomeni si ripete periodicamente, si avrà il mezzo di determinare la durata dell’anno con una certa precisione.
      Tali osservazioni dell’apparizione mattutina e della disparizione vespertina delle stelle rimontano alla più venerabile antichità presso gli Egiziani e gli Arii dell’India; presso i Greci già ne parla Esiodo come di cosa conosciuta ed entrata nell’uso dell’agricoltura e della nautica. Dei Tahitiani riferisce Cook28, che «nei loro grandi viaggi regolano la navigazione secondo il Sole durante il giorno, e secondo le stelle nella notte. Distinguono tutte le stelle principali separatamente coi propri nomi; conoscono in qual parte del cielo queste appariscono, in qual mese sono visibili sopra l’orizzonte; e sanno altresì con tanta precisione quanta non sarà, forse creduta da un astronomo d’Europa, in qual mese dell’anno cominciano ad apparire ed a sparire». Secondo Cecchi29, che viaggiò nei regni barbari al sud dell’Abissinia, «i Galla non maomettani misurano l’anno dal tempo che passa tra due osservazioni in cui videro per la prima volta una medesima stella sorgere innanzi al Sole, dopo che questa ha compiuto il giro del cielo. Sirio, la stella più bella del firmamento, indica a questi poveri selvaggi la durata del loro uoggà (anno). Altri infine, e sono i coltivatori e le classi più ignoranti, contano la durata dell’anno dai successivi periodi di pioggia, dai quali deducono anche i giorni di semina e di raccolto». Il capo Maori Duaterra diceva il 2 dicembre 1814 al Rev.


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Scritti sulla storia della astronomia antica
Tomo III
di Giovanni Virginio Schiaparelli
pagine 336

   





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