Congratuliamoci dunque o fratelli d’esser figli non di schiave, ma di madri libere (Paolo, Ep. ai Galati, 4, 31).
Inoltre come è più felice quel paese che ha meno bisogno o non ha affatto bisogno d’importazione, così è felice l’uomo a cui basta la ricchezza interna, e che pei suoi divertimenti non domanda che poco, od anche nulla, al mondo esterno, attesochè una tale importazione è costosa, obbligante, pericolosa; essa espone a disgusti, e, in conclusione, è sempre un cattivo succedaneo alle produzioni del proprio suolo. Perocchè non dobbiamo, a nessun titolo, aspettarci gran cosa dagli altri, e in generale dal di fuori. Ciò che un individuo può essere per un altro è molto strettamente limitato; ciascuno finisce col restar solo, e chi è solo? diventa allora la grande questione. Goethe ha detto in proposito, parlando in modo generale, che in ogni cosa ciascuno, in conclusione, è ridotto a sè stesso (Poesia e verità, vol. III). Oliviero Goldsmith dice egualmente: Intanto da per tutto, ridotti a noi stessi, siamo noi che facciamo o troviamo la nostra propria felicità (Il Viaggiatore, v. 431 e seg.).
Ognuno deve adunque essere e fornire a sè stesso ciò che v’ha di migliore e di più importante. Quanto più succederà così, tanto più per conseguenza l’individuo troverà in sè stesso le sorgenti dei suoi piaceri, e tanto più sarà felice. Si è quindi con ragione che Aristotele ha detto: La felicità appartiene a chi basta a sè stesso (Mor. ad Eudemo, VII, 2). Infatti tutte le sorgenti esterne della felicità e del piacere sono di lor natura eminentemente incerte, equivoche, fuggevoli, aleatorie, quindi soggette ad arrestarsi facilmente pur anche nelle circostanze più favorevoli, e questo è pure inevitabile, attesocchè noi non possiamo averle sempre alla mano.
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