Frattanto ci tengo a ricordar qui che ciò che si disegna più particolarmente con una parola propria esclusivamente della lingua tedesca, Philister (borghese, droghiere, filisteo), si è precisamente l’uomo che, in seguito alla misura limitata e strettamente sufficente delle sue forze intellettuali, non ha bisogni spirituali; tale espressione appartiene alla vita da studenti, ed è stata messa in uso più tardi in un rispetto più elevato, ma analogo ancora al suo senso primitivo, per qualificare colui che è l’opposto d’un figlio delle Muse, vale a dire un uomo affatto prosaico. Costui infatti è e resta l’amousos aner (l’uomo non iniziato alle Muse). Ponendomi ad un punto di vista più alto ancora vorrei definire i filistei dicendo che sono gente costantemente occupata, e ciò colla più gran serietà del mondo, d’una realtà che non è realtà. Ma questa definizione, già d’una natura trascendentale, non sarebbe in armonia col punto di vista popolare a cui mi son messo in questa dissertazione; potrebbe quindi non esser compresa da tutti i lettori. La prima invece ammette più facilmente un commento specifico, e disegna abbastanza l’essenza e la radice delle proprietà caratteristiche tutte del filisteo. Costui è dunque, come dicemmo, un uomo senza bisogni spirituali.
Da ciò derivano molte conseguenze: la prima, in rapporto a lui stesso, si è che non avrà mai gioje spirituali, secondo la massima già citata che non vi sono veri piaceri se non con veri bisogni. Nessuna aspirazione ad acquistar conoscenze e giudizi nuovi per le cose in sè stesse anima la sua esistenza: e nessuna aspirazione ai piaceri estetici, perocchè queste due aspirazioni sono strettamente legate assieme.
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