(De Cive, I, 5)». Così si spiega il prezzo grandissimo che si annette alla gloria, e i sacrifizî che si fa nella sola speranza di arrivarvi un giorno: «La fama è lo sprone che spinge le menti superiori (ultima debolezza delle anime nobili) a sdegnare i piaceri ed a consacrare la loro vita al lavoro».
Come anche:
«Quanto è faticoso l’arrampicarsi su quelle cime ove brilla il tempio della fama».
Perciò la più vanitosa di tutte le nazioni ha sempre in bocca la parola «gloria» e la considera come il motore delle grandi azioni e delle grandi opere. Solo, siccome la gloria non è incontestabilmente che il semplice eco, l’immagine, l’ombra, il sintomo del merito, e siccome in ogni caso ciò che si ammira deve valere più dell’ammirazione, ne segue che quello che rende veramente felice non sta nella gloria ma in ciò che ce la procura, nel merito stesso, o, per parlare più esattamente nel carattere e nelle facoltà che fondano il merito sia nell’ordine morale, sia nell’ordine intellettuale. Perocchè ciò che un uomo può essere di più eccellente, è necessariamente per lui stesso che deve esserlo; quanto del suo avere si riflette nella testa degli altri, quanto egli vale nella loro opinione non è per lui che accessorio e d’un interesse subordinato. Per conseguenza colui che non fa che meritare la gloria, quand’anche non la ottenga, possede ampiamente la cosa principale ed ha di che consolarsi se gli manca l’accessorio, vale a dire la gloria stessa. Ciò che rende l’uomo degno d’invidia non è l’esser tenuto per grande da quel pubblico così incapace di giudicare e di sovente così cieco, ma è l’esser grande; e neppur si è felicità suprema vedere il proprio nome passar alla posterità, bensì produrre pensieri che meritino di esser raccolti e meditati in ogni epoca.
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De Cive
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