Aver meritato la gloria, ecco ciò che ne costituisce il valore e nel tempo istesso la propria ricompensa. Che lavori chiamati a gloria immortale l’abbiano qualche volta già ottenuta dai contemporanei, è tal fatto dovuto a circostanze fortuite e che non ha grande importanza. Perocchè gli uomini mancano ordinariamente di giudizio proprio, e sopra tutto non hanno le facoltà volute per apprezzare le produzioni di un ordine superiore e difficile; perciò essi seguono sempre su queste materie l’autorità altrui, e la gloria suprema è accordata di pura fiducia da novantanove ammiratori su cento. Per questo l’approvazione dei contemporanei, per quanto numerose sieno le voci loro, ha un prezzo assai basso per il pensatore; questi vi distingue solo l’eco di qualche voce che non è ella stessa che un effetto del momento. Un virtuoso si sentirebbe molto lusingato dal plauso approvatore del pubblico se sapesse che, salvo uno o due individui, l’uditorio è composto affatto da sordi, i quali per dissimulare scambievolmente la loro infermità, applaudiscono a tutta forza non appena vedono muover le mani la sola persona che ha le orecchie sane? Che sarebbe dunque s’egli sapesse pure che i capi della claque sono stati spesso comprati per procurare il più splendido successo al più infelice raschiatore di violino! Questo ci spiega perchè la gloria contemporanea subisca così di rado la metamorfosi in gloria immortale: d’Alembert espone la stessa idea nella sua magnifica descrizione del tempio della gloria letteraria: «L’interno del tempio non è abitato che dai morti che non vi erano mentre vivevano, e da pochi viventi che sono messi alla porta, nella maggior parte, non appena hanno cessato di vivere».
| |
Alembert
|