Chi è chiamato a vivere fra gli uomini non deve respingere in modo assoluto alcuna individualità dal momento che essa è già determinata e data dalla natura, fosse pure l’individualità la più malvagia, la più miserabile o la più ridicola. Ei deve piuttosto accettarla come una immutabilità che, in virtù d’un principio eterno e metafisico, deve essere quale è; e nel peggior dei casi dirà a sè stesso: «Bisogna bene che vi sia pure qualcuno di questa specie.» Che se prendesse la cosa altrimenti, commetterebbe un’ingiustizia e provocherebbe l’altro ad una lotta di vita e morte. Perocchè non v’ha uomo che possa modificare la propria individualità, vale a dire il carattere morale, le facoltà intellettuali, il temperamento, la fisonomia, ecc. Se dunque condanniamo senza eccezione il suo essere, non gli resterà che a combattere in noi un nemico mortale dal momento che noi non vogliamo riconoscergli il diritto di esistere se non alla condizione di diventare altra cosa da ciò che è immutabilmente. Ed è per questo che, quando si vuol stare fra gli uomini, bisogna lasciar vivere ciascheduno ed accettarlo coll’individualità, qualunque essa sia, che gli è toccata in sorte, occupandosi unicamente di utilizzarla in quanto la sua qualità e la sua organizzazione lo permettono, ma senza sperare di modificarla e senza condannarla puramente e semplicemente così come è. Ecco il vero significato del detto: «Vivere e lasciar vivere,» Tuttavia il cómpito non è così facile come è giusto; si chiami felice colui al quale è dato di poter evitare per sempre certe individualità. Intanto, per imparar a sopportare gli uomini, è buona cosa esercitare la pazienza sugli oggetti inanimati che, in virtù d’una necessità meccanica o di qualunque altra necessità fisica, contrariano ostinatamente la nostra azione; a ciò fare abbiamo occasione ogni giorno.
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