Kant tratta pure di questo genere di misantropia nella sua Critica della ragione verso la fine della nota generale al § 29 della prima parte.
È un brutto sintomo, così dal lato morale come dall’intellettuale, per un giovane il raccapezzarsi facilmente in mezzo alla confusione delle vicende umane, il trovarvisi bene, e il mettervisi dentro quasi vi fosse stato preparato anticipatamente; ciò indica volgarità. Invece un’attitudine confusa, esitante, imbarazzata e a controsenso è in tale circostanza indizio di nobile specie.
La serenità e il coraggio in cui si rimane vivendo durante la gioventù dipendono anche in parte dal fatto che salendo il monte non possiamo scorgere la morte, la quale sta ai piedi dell’altro versante. Una volta passata la cima, la vediamo coi nostri occhi, mentre fino allora non la conoscevamo che per bocca altrui, e, siccome in quel momento le forze vitali cominciano a declinare, il nostro coraggio s’infiacchisce nel tempo stesso; una serietà pensosa scaccia allora la petulanza giovanile, e s’imprime sulle nostre sembianze. Finchè siamo giovani crediamo senza fine la vita, checchè ce ne venga detto, ed usiamo del tempo in conseguenza. Quanto più invecchiamo, tanto più facciamo economia di esso. Perocchè, in età avanzata ogni giorno che vola via, produce in noi quel sentimento che prova un condannato ad ogni passo che lo avvicina al patibolo.
Considerata dal punto di vista della gioventù l’esistenza è un avvenire infinitamente lungo: da quello della vecchiezza un passato assai corto, cosicchè essa si offre ai nostri sguardi, sul principio come le cose guardate dalla parte dell’obbiettivo d’un cannocchiale da teatro, e sul finire come quando sono viste dall’oculare.
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Critica
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