Ei non si pasce più dell’illusione che in qualche parte, palazzo o capanna, risieda una felicità speciale più grande di quella di cui gode egli stesso dovunque, quando è per l’appunto libero da ogni dolore fisico e morale. A’ suoi occhi non v’ha più distinzione tra le cose grandi e le piccole, tra le nobili e le vili, misurate sulla scala del nostro mondo. Ciò dà al vecchio una calma di spirito affatto particolare, la quale gli permette di guardare sorridendo il vano prestigio di quaggiù. Egli è completamente disingannato; sa che la vita umana, checchè si faccia per adornarla e metterla in arnese, non tarda a mostrarsi in tutta la sua miseria a traverso i suoi orpelli da fiera; sa che, qualunque sforzo si faccia per dipingerla ed abbellirla, essa è in sostanza sempre la stessa cosa, vale a dire un’esistenza di cui bisogna stimare il valore effettivo sull’assenza del dolore e non sulla presenza del piacere, e meno ancora del fasto (Orazio, Epist., L. I, 12, v. 1-4). Carattere fondamentale della vecchiajà è il disinganno; in essa non più di quelle illusioni che davano alla vita una bellezza incantevole ed all’attività uno stimolo; si ha conosciuto la nullità e la vanità in questo basso mondo di qualunque magnificenza, specialmente della pompa, dello splendore e d’ogni apparenza di grandezza: si ha avuto prova dell’infimità di ciò che sta in fondo di quasi tutte queste cose che destano così vivo il desiderio, e di questi piaceri a cui si aspira con tanto ardore; e così a poco a poco si è giunti a convincersi della povertà e della vacuità dell’esistenza.
| |
Orazio Epist
|