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      Ma poiché ogni pluralità ed ogni principio e fine è possibile sol mediante tempo, spazio e causalità, ne deriva che anche pluralità, principio e fine si riferiscono esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosa in sé. Ed essendo la nostra conoscenza sotto condizione di quelle forme, ne viene che l'esperienza tutta intera è semplice conoscimento del fenomeno, e non della cosa in sé: quindi non possono le sue leggi aver valore per la cosa in sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, che noi conosciamo soltanto come fenomeno, e non quale può essere in se stesso». Questo è, sotto l'importante rispetto qui preso a esaminare, il significato e il contenuto della dottrina kantiana. Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che i nostri sensi percepiscono, non hanno nessuna vera consistenza: esse divengono sempre, ma non sono mai: hanno un'esistenza appena relativa, esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il loro reciproco rapporto: tutto il loro essere può così chiamarsi con egual ragione un non-essere. Non sono quindi neppure oggetto di una vera e propria conoscenza (????????); potendosi aver conoscenza solo di ciò che esiste in sé e per sé; e sempre nello stesso modo: mentre esse non sono se non l'oggetto di un'opinione provocata per mezzo di sensazione (???? ???' ????????? ??????). Fin quando restiamo vincolati alla loro percezione, rassomigliando a uomini i quali stiano in una oscura caverna, così strettamente legati da non poter nemmeno volgere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di un fuoco acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sulla parete di contro, di oggetti reali fatti passare tra loro medesimi ed il fuoco; ed anche di se stesso o dei compagni ciascuno veda soltanto l'ombra su quella parete.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368