Quest'ultima affermazione è una mia aggiunta, che per l'appunto mi occupo di spiegare nel presente terzo libro.
Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrina di Kant, e, da Kant in qua, capito Platone; se si avesse con fedeltà e serietà meditato l'intimo senso e contenuto delle dottrine di questi due grandi maestri, invece di far sproloqui coi termini tecnici dell'uno e parodiare lo stile dell'altro, non si sarebbe potuto mancar di scoprire da gran tempo quanto concordino i due grandi sapienti, e come il significato puro, l'indirizzo ultimo delle due dottrine sia proprio il medesimo. E così non pure non si sarebbe ostinatamente confrontato Platone con Leibniz, col quale il suo genio non s'accorda in nessun modo, e tanto meno con un noto signore ancor vivente1, quasi per dileggiare i Mani del grande pensatore antico; ma sotto ogni rispetto saremmo assai più progrediti di quanto siamo, o piuttosto non saremmo così ignominiosamente retrocessi, come è accaduto in questi ultimi quarant'anni; non ci si sarebbe lasciati tirar pel naso oggi da un ciarlatano, domani da un altro, né questo secolo XIX, annunziantesi così significante, avremmo inaugurato in Germania con filosofiche farse recitate sulla tomba di Kant (come talora gli antichi ai funerali dei loro), fra il giusto dileggio d'altre nazioni – perché ai gravi e perfino rigidi tedeschi scherzi siffatti si convengono meno che a ogni altro. Ma così ristretto è il vero e proprio pubblico degno dei filosofi genuini, che perfino i discepoli atti a comprenderli sono loro parcamente condotti dai secoli.
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