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      Anche perciò, e soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al servizio della volontà, nella conversazione baderanno non tanto alla persona, con la quale parlano, quanto alla cosa di cui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi giudicheranno in un modo troppo obiettivo, senza riguardo al proprio interesse, o racconteranno, invece di tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute, e così via. Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e possono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, da avvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazzia abbiano un lato in cui confinano, anzi si confondono, fu osservato sovente; e perfino l'estro poetico fu detto una specie di pazzia: amabili insania lo chiama Orazio (Od. III, 4), e «graziosa follia» Wieland nell'introduzione dell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo riferisce Seneca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il medesimo esprime Platone, nel sopracitato mito della caverna oscura (de Rep. 7), col dire: Coloro, che fuor della caverna hanno contemplata la vera luce solare e le cose davvero esistenti (le idee), non possono rientrando nella caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno perduto l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lì sotto le ombre; ed essi vengono perciò nei loro errori derisi dagli altri, che non sono mai usciti da questa caverna e da queste ombre. Egli dice anche espressamente nel Fedro (p. 317) che senza qualche follia non può darsi poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelle effimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual folle.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





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