Perciò anche chi sia tormentato da passioni o bisogno o affanno, è da un solo libero sguardo, ch'egli getti sulla natura, così improvvisamente confortato, rallegrato e sollevato: la tempesta delle passioni, l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni tormento del volere sono allora d'un tratto placati istantaneamente in maniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi, liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo, dove tutto ciò che commuove la nostra volontà e quindi sì forte ci scuote, più non esiste. Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto e sì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e infelicità sono svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato, non siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo più se non come l'unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri conoscenti guarda, ma nell'uomo soltanto può diventare del tutto libero dal servigio della volontà: e allora ogni distinzione da individuo a individuo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente se il contemplante occhio appartenga a un re possente o a un tormentato mendico. Imperocché né felicità né pena vengono portati con noi al di là da quei confini. Sì presso sta a noi perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostra volontà, la nostra persona, si riaffaccia alla conscienza, ha fine l'incantesimo: noi ricadiamo indietro nella conoscenza che il principio di ragione governa; conosciamo non più l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena, alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo restituiti a tutto il nostro affanno.
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