La grandezza del mondo, che prima c'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza da lei viene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Ma tutto ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, si mostra come la coscienza appena sentita d'essere, in un senso qualsivoglia (il quale dalla filosofia sarà chiarito), tutt'uno col mondo, e quindi nella sua smisurata grandezza non già schiacciati, bensì innalzati. È la conscienza sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimono ripetute volte in così vari modi, specialmente nella già citata sentenza: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, vol. I, p. 122). È innalzamento sul proprio individuo, sentimento del sublime.
In modo affatto immediato quest'impressione del sublime matematico ci è già prodotta da uno spazio piccolo, sì, in confronto dell'universo, ma che, essendo a noi visibile intero e direttamente, agisce su di noi nelle sue tre dimensioni con tutta la grandezza sua; la quale basta a render quasi infinitamente pìccola la proporzione del nostro corpo. Di tale effetto non è capace uno spazio, che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindi uno spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circoscritto, sia direttamente percepibile in tutte le dimensioni: così un alto e grande interno, qual è quello di S. Pietro in Roma o di S. Paolo in Londra. L'impressione del sublime nasce qui da sentire l'impercettibile nullità del nostro corpo davanti a una grandezza, la quale nondimeno d'altra parte sta solamente nella nostra rappresentazione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto conoscente.
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