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      L'intera massa dell'edificio, abbandonata alla sua originaria tendenza, presenterebbe nient'altro che un cumulo il più possibile aderente alla terra: verso la quale incessante sospinge la gravità (perché così si manifesta quivi la volontà), mentre la solidità, anch'essa oggettità della volontà, le si oppone. Ma appunto codesta tendenza, codesta necessità viene dall'architettura impedita nella sua immediata soddisfazione; che sol mediatamente le vien concessa, per vie non dirette. Per esempio, l'architrave può premer la terra sol per mezzo delle colonne; la volta deve reggersi da sé, e appagar la sua attrazione verso la massa terrestre solo attraverso i pilastri, etc. Ma appunto in queste forzate vie indirette, appunto attraverso questi impedimenti, si dispiegano nel modo più manifesto e variato le forze inerenti al nudo masso di pietra; e più lungi non può andare il fine puramente estetico dell'architettura. Perciò senza dubbio la bellezza di un edifizio consiste nell'adattamento, visibile a tutta prima, di ciascuna parte al suo fine: e non al fine esteriore, arbitrario dell'uomo (che sotto questo rispetto appartiene l'opera all'architettura pratica), bensì direttamente alla consistenza dell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e forma d'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessaria, che, qualora fosse possibile, sottraendone una sola crollerebbe l'edifizio intero. Imperocché solo col sostener ciascuna parte quanto le conviene di sopportare, e con l'esser ciascuna sorretta dove e come occorre, si sviluppa fino alla più perfetta evidenza quel contrasto, quella lotta tra solidità e gravità, onde son costituite nella pietra la vita, le manifestazioni della volontà; e chiaramente si palesano questi gradi infimi dell'oggettità della volontà. Non altrimenti deve la forma di ciascuna parte esser determinata dal proprio scopo e dalla propria relazione con l'insieme, non già dall'arbitrio.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368