Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, ha Lessing cercato di spiegare il fatto che Laocoonte non grida, con l'addurre che il gridare non sia compatibile con la bellezza. Poi che per Lessing questo argomento divenne il tema, o per lo meno il punto di partenza, d'un libro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi si è scritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per incidenza la mia opinione a questo proposito; sebbene un'analisi tanto particolare non entri propriamente nella trama di un'argomentazione, che mira, in modo esclusivo, ai principi generali.
§ 46.
Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è palese, e la generale, sempre rinnovata sorpresa che se ne prova, deve provenir dal fatto che noi tutti, al suo posto grideremmo. E ciò richiede la natura stessa: che nel vivissimo dolor fisico e nella massima, improvvisa angoscia corporea, ogni riflessione, la quale potesse per avventura indurci a un tacito patire, è del tutto bandita dalla conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con che insieme esprime il dolore e il terrore, il salvatore invoca e l'assalitore spaventa. Già Winckelmann sentì quindi una mancanza, non trovando la espressione del gridare: ma nell'intento di giustificar lo scultore, fece invero di Laocoonte uno stoico, il quale non ritiene conforme alla propria dignità il gridare secundum naturam, bensì al proprio dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di comprimerne l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui «lo spirito provato di un uomo grande, il quale lotta col martirio, e cerca di soffocare e rinserrare in sé l'espressione di ciò che prova: egli non prorompe in alte grida, come fa in Virgilio, ma solamente gli sfuggono angosciosi sospiri», e così via (Werke, vol.
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