Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituente l'in-sé di ogni cosa, come identica e tutt'una con ciò che in noi, dov'essa si manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena conscienza, si chiama volontà. La sua compressione mediante un ostacolo, che si mette fra lei e una sua mira, chiamiamo quindi dolore; viceversa il suo conseguir la mira chiamiamo appagamento, benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo pur riferire ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, più deboli di grado, ma nell'essenza identici. Questi vedremo allora presi da perenne soffrire, senza durabile felicità. Perché ogni aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione. L'aspirazione vediamo ovunque in più forme compressa, diuturnamente pugnando; quindi sempre come dolore. Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura e termine il soffrire.
Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fatica scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiare in codesto grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell'uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiari; perfino negl'insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancor limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l'intelligenza si sviluppa.
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