§ 57.
In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a sé la volontà come individuo. Nell'infinito spazio e infinito tempo vede l'umano individuo se stesso come finito, e per conseguenza, come una quantità evanescente di fronte a quelli, in essi gettata; e, per la loro sconfinatezza, ha sempre un relativo quando e dove della sua esistenza, non mai assoluto: perché il suo luogo e la sua durata sono parti finite di un infinito e di un illimitato. Il suo vero e proprio essere è soltanto nel presente, la cui non trattenuta fuga verso il passato è un perenne passar nella morte, un perenne morire; che la sua vita trascorsa, prescindendo dalle sue eventuali conseguenze nel presente, com'anche dalla testimonianza che dà della volontà di lui, la quale v'è dentro impressa, è già del tutto chiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion vuole che gli sia indifferente, se angosce o gioie fossero il contenuto del suo passato. Il presente sfugge ognora dalle sue mani diventando passato: l'avvenire è affatto incerto e sempre corto. È dunque la sua esistenza, anche se guardata soltanto sotto l'aspetto formale, un perenne precipitar del presente nel morto passato, un perenne morire. Ma ora guardiamola anche sotto l'aspetto fisico; è chiaro che, come il nostro camminare si sa essere nient'altro che un costantemente trattenuto cadere, così la vita del nostro corpo è un costantemente trattenuto morire, una morte sempre rinviata: e nello stesso modo, per concludere, l'attività del nostro spirito è un costante allontanare la noia.
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